Come un equilibrista su una corda tesa,
camminavi che non volevi partire.
Non fu per amore che andasti lontano,
non fu certo per il bisogno di cambiare,
ma per una maschera nera
che ti spinse
sull'ultimo vagone,
che ti portò via,
senza curarsi delle tue emozioni.
Non è la guerra
a fare dell'uomo un essere spietato,
ma un'idea che gli entra in testa,
che lo eleva a giudice e a maestro.
Così,
una sfumatura della pelle,
o dei connotati presi a pretesto,
diventano segni di una diversità malata,
grumo di un impasto venuto male,
che occorre venga eliminata.
Per questi pensatori,
esiste da sempre
un prato con dei crisantemi
che qualcuno deve far sbocciare.
E tu come concime saresti andato bene,
quando ti avessero tolte le catene.
Come un funambolo sospeso in alto,
senza rete di protezione,
ti buttarono
in mezzo a fili spinati di prigione.
A nulla valse,
per il carnefice,
sapere che pregavi con gli stessi suoi versi,
né vedere che le tue lacrime
non erano dalle sue diverse.
Alla fine,
come fossi un attore,
che al debutto
ha paura degli spettatori,
ti spinsero sul palco,
dicendoti che la tua parte
era di spogliarti nudo e di lavarti,
mentre calava il sipario.
Ma non pensare di aver avuto l'esclusiva,
poiché l'intento non era farti divo.
Prima e dopo di te, infatti,
ci sono stati altri
perseguitati,
incatenati,
resi schiavi,
torturati,
e infine,
al taglio del respiro
condannati.
E altri, ci saranno,
anche domani.
(Nota dell'autore:
Non una sola catena tiene l'uomo in schiavitù,
ma tutte hanno in comune che i loro anelli,
che stringono polsi, caviglie e gole,
NON opprimono le coscienze di chi le mette
e di chi non le fa togliere)