Secondo l'interpretazione più accreditata del poema omerico, Odisseo è un eroe nostalgico. Il suo è un viaggio di ritorno, un "nostos" in senso letterale. La patria è la meta dei suoi mille vagabondaggi lungo il Mediterraneo. Ne consegue che le peripezie di Odisseo costituiscono altrettanti inciampi rispetto all'obiettivo di chiudere il cerchio. E' su queste basi che si sviluppa l’interpretazione neoplatonica del ritorno dell'anima all'Uno, lungo una tradizione che da Plotino arriva per lo meno fino a Schelling.
Ma il motore vero del viaggio, non sta forse nell’attrazione che l’astuto ideatore del cavallo di Troia prova nei confronti delle forze del caos? Cosa lo spinge a entrare nell’enorme tana di Polifemo, a ignorare i prudenti consigli della sua ciurma? Non dovremmo scardinare e rovesciare l’interpretazione nostalgica del mito? Ignorando felicemente il testo originale di Omero, Dante trasforma Odisseo nell’archetipo dell’avventuriero, consegnandolo a un viaggio senza ritorno di là dal sol nel mondo sanza gente. L’epopea del ‘folle volo’ narrata nel XXVI canto dell’Inferno coglie il tratto etimologicamente de-lirante dei viaggi di Ulisse. Nessuna nostalgia della patria, nessuna volontà di chiudere il cerchio, bensì un febbrile estremismo è quello che pulsa nel cuore di Odisseo. Un eroico furore, nel senso che sarà poi definito da Giordano Bruno.
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