Elaborata all’interno di un paradigma in cui convergono metafisica, gnoseologia, e «psicologia», nell’accezione peripatetica del termine, la concezione medievale del fantasma gioca un ruolo fondamentale all’interno della poesia erotica duecentesca. Che si tratti della lirica trobadorica, della scuola siciliana, degli stilnovisti, di Cavalcanti o del primo Dante, l’oggetto verso cui si indirizza la passione amorosa cantata dal poeta non si identifica con la donna in carne ed ossa, bensì con il suo «fantasma», la figura interiore che ha preso corpo nell’immaginario. L’esperienza del poeta-amante si configura pertanto come un’esperienza interiore definita dal perimetro della scrittura: il vassallo d’Amore vive in prima persona un’avventura esistenziale collocata ai confini tra l’immaginario e il reale, in una zona allucinatoria dai confini sfumati in cui il reale viene completamente assorbito dall’immaginario. E non si tratta, beninteso, di un semplice topos retorico, di una cifra stilistica afferente al livello formale del discorso poetico, quanto di una forma del contenuto, di un programma ideologico innestato su un tessuto culturale che trova il suo «manifesto tecnico» nel trattato De amore di Andrea Cappellano.
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