Diario

Intervistando Michele Nigro, a cura di Davide Morelli

Michele Nigro, nato nel 1971, vive a Battipaglia (Sa). Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli. È un artista poliedrico. Dimostra talento in ogni cosa in cui si cimenta. Il suo ingegno è versatile. Ha diretto la rivista letteraria “Nugae” fino al 2009 e attualmente cura il blog personale “Nigricante”: http://michelenigro.wordpress.com. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Nessuno nasce pulito”, la raccolta di racconti “Esperimenti”, il racconto lungo “Call Center” e il saggio “La bistecca di Matrix”. Ha scritto su un quotidiano di Salerno e in tanti altri posti. Oltre ad essere poeta e scrittore è anche giornalista partecipativo. Ha frequentato nel 2008 a Roma, presso la Giulio Perrone editore, il Corso di Giornalismo Culturale. Ha partecipato al Laboratorio di scrittura creativa Rai Eri “Il libro che non c’è”. Ha vinto numerosi premi letterari e ha ottenuto vari consensi da parte della critica. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in molte antologie.
Chi lo segue sui social sa che non lesina battute argute sui fatti del giorno. È ironico e anche autoironico. Riesce ad essere, come si suol dire, sempre sul pezzo. Scrive aforismi pregevoli. È sempre presente su internet ma rifugge dall’esibizionismo e dal successo. Questa è una descrizione molto sintetica di Michele Nigro. Non ho voluto fare il critico letterario e neanche il biografo. In questa intervista gli ho rivolto delle domande, forse un po’ banali ma utili a comprendere di più l’autore. Se volete saperne di più leggetela attentamente e poi magari commentate. (d.m.)

DM. A che età hai iniziato a scrivere?
MN. Mi chiedi di compiere un “carotaggio mnemonico” nei terreni del Passato: credo che i primi esperimenti risalgano alla seconda metà degli anni ‘80. Ricordo che mi divertivo a scrivere delle sottospecie di componimenti poetici utilizzando l’inchiostro di china e il pennino: il fatto di dover intingere di tanto in tanto, con un gesto d’antan, mi forniva una pausa dalla scrittura compulsiva e mi induceva a riflettere. Oggi con la videoscrittura questa lentezza è andata un po’ persa, ma cerco sempre di fare un “passaggio lento” su carta prima di riversare tutto in un file, almeno per le scritture a cui tengo di più. Poi c’è stato un lunghissimo periodo diaristico, quando vivevo a Napoli: il diario s’intitolava “Napoli e io”, seppellito in garage; sono trascorsi quasi vent’anni dall’ultima pagina scritta lì sopra, ma non ho ancora trovato il “coraggio” di rileggerlo. Un giorno, quello giusto, lo farò: sono convinto che troverò molte “materie prime” per la scrittura di oggi.

Da quanto tempo sei un artista multimediale?
Ah, lo sono? Non sapevo di esserlo… Se con la definizione “artista multimediale” ti riferisci all’esperienza di webpoetry sul mio blog “Nigricante” (http://michelenigro.wordpress.com) con cui cerco di integrare coerentemente poesia (o altri tipi di testo), immagini e video musicali in un unico post, allora possiamo parlare di una sorta di multimedialità. Per il resto non credo di aver sperimentato chissà che. L’arte multimediale è ben altra situazione: ne sanno qualcosa gli organizzatori dell’OLE Festival di Napoli (Festival Internazionale della Letteratura Elettronica); la vera multimedialità applicata all’arte prevede anche un compromettente grado d’interazione tra autore e fruitore, che può addirittura modificare l’opera: nel mio caso non si va oltre l’ipertestualità o il classico “mi piace”, la condivisione e i commenti, tipici del blogging e del social networking. Sono ben lontano dai più moderni concetti di Crossmedialità o di Transmedialità.

Ti definisci un lettore onnivoro, ma quali sono state le letture che ti hanno formato?
Assolutamente onnivoro: la monotematicità mi ucciderebbe. Di libri importanti ne ho incontrati tantissimi; dal punto di vista letterario non ho una formazione accademica (per fortuna o per sfortuna) quindi non ho dovuto leggere un elenco di libri consigliati per superare gli esami. Ricordo con affetto i libri sugli animali che mia madre acquistava a Port’Alba a Napoli tra la fine dei ‘70 e gli ‘80, e poi gli almanacchi di Topolino e Paperino, la Bibbia, una raccolta di fiabe giapponesi, le mitiche enciclopedie “Conoscere” e “Universo” (altro che Wikipedia!), l’Atlante geografico De Agostini, e ovviamente la letteratura fantascientifica… Ma le letture interessanti e formative sono quelle che ancora devo fare: la mia libreria chiama!

Alcuni ritengono che i blog non abbiano più modo di esistere. Cosa ne pensi a riguardo?
Penso che, al contrario, i blog rappresentino (almeno per quel che riguarda il web) l’ultimo avamposto prima della definitiva invasione di una certa “liquidità”, a cui faceva riferimento Bauman, applicata alla scrittura in rete. Il social networking ha amplificato a dismisura questa condizione disumanizzante: qualcuno parla, a ragione, di “soliloqui incrociati” trasportati da un flusso elettronico verso il mare del Nulla. Anche un blog è effimero: basta un clic e addio! Ma se il blogging è curato, nutrito con materiali consistenti, se è articolato e non teme di essere complesso, può rappresentare un valido argine all’effimero individualismo del web. C’è chi afferma che i post, per essere efficaci (termine relativo: efficaci per chi, per fare cosa?), debbano avere una struttura elementare, essere brevi, leggeri, mi verrebbe da dire “liquidi”, appunto. Io invece dico: scrivete, quando è possibile, post lunghissimi, difficili, “pesanti”, articolati. Avrete molti visitatori frettolosi in meno, questo è sicuro, ma non sarete trasportati dalla corrente del fiume: la “vostra rete” sarà salda, più solida, meno trafficata ma più resistente al tempo. Tutto il resto, poi, dipende dai motori di ricerca e dall’indicizzazione dei contenuti. Se un libro è valido, anche se collocato in un punto dello scaffale poco frequentato, perché non dovrebbe meritarsi di esistere?
E poi, mi tolgo qualche sassolino dalla scarpa, non comprendo lo snobismo di certi “scrittori”, solo perché sono stati pubblicati da qualche casetta editrice, nei confronti dei blogger, non ritenuti “veri scrittori” perché non hanno ancora partorito il “prodotto-romanzo”: anche il blog è una palestra di scrittura (non tutti i blog, ovviamente); molti libri cartacei hanno avuto origine da forme embrionali sul web, così come molti libri stampati proseguono “la discussione” in rete (penso a “Medium” http://medium.com/guida-a-medium e ad altre piattaforme simili per l’interazione autore/lettore, come l’italiana Rivista Letteraria Libera “La Recherche.it” http://www.larecherche.it/index.asp).

Alcuni giornalisti dicono tutto il male possibile del web. Cosa ne pensi?
Penso che questi giornalisti siano ignoranti, nel senso che ignorano le potenzialità di un mezzo a cui loro stessi, come categoria, attingono a piene mani continuamente: basti pensare a quante volte vengono nominati i social network nel corso dei telegiornali per sottolineare l’andamento dell’opinione pubblica in merito a una questione politica o a una notizia di cronaca. Credo che il giornalismo professionistico si lamenti, giustamente, del web in riferimento al fenomeno delle cosiddette “fake news”: partendo dal presupposto che anche molti “giornalisti professionisti” hanno creato false notizie, non hanno verificato fonti, sono stati di parte, non vi è un luogo sicuro, nel mondo delle notizie, a prova di “falso”. Il “giornalismo partecipativo” ovviamente rappresenta una minaccia per i giornalisti vecchio stampo (anche se l’adeguamento ai tempi è in corso!): per fortuna non bisogna essere iscritti all’Ordine dei Giornalisti o avere il tesserino da pubblicista per scrivere la verità o per “partecipare attivamente” alla creazione di notizie. Anche quelle culturali: quest’intervista è un esempio di “giornalismo culturale partecipativo”.

Cosa ne pensi del trolling? E degli hater?
Anche se sul mio blog mi sono autodefinito scherzosamente hater e fautore del trolling, penso dei troll e degli hater le stesse cose che penso dei normali “detrattori” nella vita reale: inizialmente possono essere fastidiosi, in seguito si rivelano preziosi per immunizzarci e renderci più forti, o meglio, resilienti, come molti amano dire oggi. A Roma si usa l’espressione: “me rimbalzi!” ovvero ‘mi scivoli addosso’. Solo così si può capire se una passione è forte, se un interesse perseguito è quello giusto o è solo un capriccio momentaneo per cui non vale la pena combattere. Gli hater, come i detrattori, svolgono una funzione oserei dire fondamentale: ci permettono di conoscere e di diventare noi stessi. E quindi, paradossalmente, andrebbero ringraziati.

Quali sono i poeti contemporanei che preferisci?
Se per contemporanei intendi anche quelli non recentissimi e i non viventi allora, comprenderai, l’elenco diventa un tantino lungo e complesso: però, per non fare torto ai miei coevi, dimenticandone qualcuno, mi terrei largo e parlerei di Ritsos, Pessoa, Kavafis, Raboni, Merini, Szymborska, Boris Vian, Giorgio Manganelli… e Jim Morrison (sì, hai letto bene!). Ma ce ne sarebbero altri: mi fermo qui.

Quali sono gli scrittori contemporanei che preferisci?
Umberto Eco, Franzen, Nothomb, Erri De Luca, Philip K. Dick, Timur Vermes, Enzo Striano, Andreas Eschbach, Roth, Pamuk, il “collettivo” Luther Blissett, fino a… Vinicio Capossela (hai letto di nuovo bene!). Come per i poeti, m’imbarazza stilare elenchi: anche perché non è detto che mi piacciano tutti i libri di uno stesso autore di un sottogenere letterario. E comunque hai dimenticato di farmi la medesima domanda per gli autori di sola saggistica! Sarà per la prossima volta.

Nella vita reale frequenti artisti oppure no?
Di più in passato. Non sono un tipo da circoli letterari, da “manifesto programmatico”, per intenderci. Anche se questo non è sempre un bene: l’arte se non s’impregna di azione sociale, di interesse politico, di cultura popolare, di condivisione, prima o poi muore. Credo nella poiesis come “atto solitario”, ma senza esagerare. Alcuni “artisti”, invece, li evito scientificamente per una sperimentata incompatibilità: ci tengo alla mia salute mentale.

Scrivi sempre oppure aspetti l'ispirazione?
No, a volte leggo anche! Scherzi a parte: l’ispirazione è un fenomeno sopravvalutato a cui è stato attribuito per troppo tempo un carattere miracolistico. Come scrisse Neruda: “Venne la poesia / a cercarmi.” Ed è vero: però all’evento “divino”, creazionistico, segue sempre un momento artigianale “umano” che non è meno affascinante dell’ispirazione, anzi.

Per te è terapeutica la scrittura?
La poesia in modo particolare, e senza esagerare, posso affermare che ogni giorno mi salva la vita! In senso lato. Ma non potrei concepire la poesia come “sfogo”. Se ricordi all’inizio dell’intervista ho parlato di un periodo diaristico: sono momenti legittimi, soprattutto quando si è giovani, che nulla hanno a che fare con la ricerca poetica, con la formazione di uno stile. Se voglio scrivere degli appunti per dare forma a un pensiero libero con finalità terapeutiche, scelgo un linguaggio quotidiano da consegnare a foglietti volanti, utilizzo degli spazi che ovviamente non diventano di pubblico dominio. Scegliere una forma letteraria da donare al mondo è una scelta seria. Gli “sfoghi” lasciamoli ai dermatologi!

Cosa ne pensi della neoavanguardia? Secondo te ha esaurito la sua funzione o a tuo avviso ha ancora modo di esistere?
Credo che ci sia ancora tantissimo bisogno di una ricerca neoavanguardista, senza per questo ricadere nella parodia e nel non-senso: certi sperimentalismi esagerati furono necessari in quelle epoche in cui si avvertiva l’esigenza di rompere determinati schemi linguistici; schemi evidentemente riconducibili anche a livello sociale, culturale, politico, religioso. Oggi che si fa un gran parlare di “analfabetismo funzionale” forse sarebbe neo-neoavanguardista la riscoperta della normalità; gli schemi linguistici non solo sono stati dissacrati, di più, sono stati annullati, rasi al suolo da un’ipertrofia di dati – a cui tutti contribuiamo – che ha disarmato il significante (e di conseguenza ha impoverito il significato delle parole). Bisognerebbe ricominciare dai fonemi, dalla scrittura a penna, dalla lettura, dal gusto delle parole. Dal silenzio. La non scrittura potrebbe essere il titolo provocatorio del punto primo di un ipotetico manifesto neo-neoavanguardista del XXI secolo.

Sempre più artisti scrivono prosa poetica. Cosa ne pensi?
Credo che molti elementi tipici della poesia possano riscontrarsi anche in un testo in prosa. La faccenda dell’ “andare a capo” per considerarsi poeti, credo sia stata inventata proprio per prendere un po’ in giro chi crede che basti spezzare una frase per fare versi. Sarebbe molto più onesto scrivere direttamente prosa poetica. Quanta musicalità si riscontra in certa narrativa; non sempre la prosa assicura una distinzione netta tra significante e significato, e quando accade il risultato è piacevole come quello prodotto da… una poesia. Possiamo noi discriminare tali scritture solo perché non assicurano il rispetto di una tradizione metrica? Così come la struttura metrica dei versi non va controllata con il metronomo. È vero, qualcuno ha scambiato il “verso libero” con il “verso libertino”, ma chi può determinare quale sia (e dove sia) il confine tra la forma testuale e la sua poeticità? Tempo fa, leggendo una recensione alla mia raccolta di poesie Nessuno nasce pulito, il recensore scriveva: “Peccato che abbia abbandonato (riferendosi al sottoscritto, n.d.a) del tutto le forme della tradizione poetica, con la sua sapienza lessicale e con l'intelligente utilizzo delle figure retoriche, avrebbe anche lì capacità espressive di livello.” Una mia possibile risposta potrebbe essere: “Le forme scelte, al netto della loro poeticità, rappresentano sempre l’esigenza neurolinguistica dell’individuo storico, che vive in una determinata epoca, che si esprime in un certo modo e in un dato mondo; esigenza che non guarda in faccia ad alcuna tradizione. In parole povere: al ‘busto stretto’ del sonetto, seppur grazioso all’orecchio, prediligerò sempre il verso ‘sfigurato’ da un enjambement.”

Secondo te oggi la poesia ha una funzione sociale? Se sì, quale?
Avrei preferito che tu mi chiedessi: “Secondo te oggi la società ha una funzione poetica?” E ti avrei risposto: “sì, come sempre!”. Come ho scritto in una precedente risposta, abbiamo bisogno di socialità, di partecipazione, di condivisione e di vicinanza, per nutrirci innanzitutto di umanità; la poesia è una conseguenza anche di questo aspetto dell’esistenza. Ma non credo che la poesia possa “cambiare il mondo” o “favorire la pace sul pianeta Terra”, come dichiarano le signorine che si presentano a Miss Mondo per fare colpo sulla giuria. È già una fortuna se le poesie riescono – senza per questo scadere in uno sterile intimismo – a migliorare la vita interiore del poeta stesso; da qui ad avere un’influenza sulla società, ce ne vuole… È tutto così relativo: se una sola persona mi confessa di aver riflettuto (o essersi emozionata) grazie a un mio verso, è come se avessi vinto il Nobel! Anche questa è “funzione sociale”, sebbene ristretta. Poi c’è chi per funzione sociale intende “fare del bene con i proventi delle copie vendute”: a questi promotori dico, se potete farlo, fatelo, anche a nome mio, ma la poesia nasce da esigenze diverse. Come ho scritto più volte: la letteratura è utile solo quando è inutile; si scrive per scrivere, non “in vista di”. I benefici sociali sono incidentali.
Un’opera, ad esempio, che ebbe ambizioni sociali, nel senso di risveglio di un’identità popolare e di una coscienza della lotta di classe, fu Canto General di Pablo Neruda. Ma, appunto, stiamo parlando di Neruda! L’essere poeti impegnati socialmente e politicamente non è solo una scelta estetica o metrica, come scrivevo prima, ma può portare a conseguenze drammatiche. È di questi giorni, infatti, la notizia proveniente dal Cile riguardante la vera causa della morte di Neruda: non fu il cancro alla prostata a portarselo via, bensì un avvelenamento. Il regime di Pinochet ha voluto così assicurarsi il definitivo silenzio del poeta, amico del deposto Allende.

Cosa ne pensi dell'editoria a pagamento?
Non la frequento. Preferisco una più sana, gratuita e onesta autoeditoria (o self-publishing): è una scelta ecologica (si “spreca” carta solo se c’è un reale lettore che acquista; niente resi, niente macero, niente distributori e librai insonni, niente deforestazioni…) e in più permette all’autore di non aspettare inutilmente di entrare nelle grazie di qualche editore per vedere stampata una propria opera. Il self-publishing (che è anche in formato ebook) è un modo per cominciare a farsi leggere, non è l’alternativa assoluta all’editoria tradizionale. È evidente che quando si sceglie l’autopubblicazione, per essere credibili, occorre applicare non il doppio ma il quadruplo della cura che avrebbe una normale casa editrice per un’opera. Gli editori tradizionali intelligenti, comunque, hanno compreso l’evoluzione in atto e stanno cercando di incontrare il mondo dell’autoeditoria, di captarne le potenzialità anche in termini di nuovi autori da scoprire ed eventualmente ripubblicare. Caso mai, in una prossima intervista, potremmo parlare delle condizioni da schiavismo capitalistico dei lavoratori di Amazon o di che cosa si nasconde dietro le grandi piattaforme di self-publishing. Non esistono sistemi perfetti.

Potresti spiegare in parole povere perché talvolta usi la decostruzione narrativa?
Mi sono divertito ad applicarla, se non erro, solo in un mio racconto lungo – Call Center – pubblicato su Amazon: le trame cronologicamente lineari a volte possono risultare noiose. Il personaggio prima fa questo, poi fa quello, scende, sale, apre, dice… Seguire passo passo i protagonisti, non solo nel presente ma anche in altri tempi, è un modo per spezzare l’integrità del testo classicamente inteso. Andare avanti e indietro nel tempo, utilizzando dei flashforwards (e non solo i più classici flashback), è un espediente della metanarrazione, figlia legittima della letteratura postmoderna. Alcuni pensano che si tratti di “trucchetti” nati con il cinema: la letteratura, invece, è piena di esempi autorevoli di decostruzione narrativa.

Potresti dirmi tre buoni motivi per cui acquistare la tua raccolta poetica "Nessuno nasce pulito"?
Motivi da fornire non ne ho, francamente. Si arriva a leggere l’opera di un autore seguendo le stesse strade misteriose che hanno indotto a scriverla. Ci si sceglie per caso, annusandosi. Credo nel book marketing, ma fino a un certo punto: il resto se deve avvenire, avviene. A volte si è diffidenti dinanzi all’opera prima di un poeta e si pensa “perché dovrei essere proprio io a dare fiducia a questa penna?”. E caso mai, dopo anni, si ritorna su quell’opera perché si è letto altro di quell’autore, scritto in seguito al suo esordio. Le vie della lettura sono infinite, come per la metanarrazione a cui accennavo sopra.

Che consigli daresti a un giovanissimo che vuole scrivere?
Assolutamente nessun consiglio. I consigli sono il frutto della logica e la mia razionalità consiglierebbe di seguire strade più facili e redditizie. La scrittura è una scelta dell’anima e io nelle anime altrui non ci entro declamando decaloghi o disseminando consigli.

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