I limiti del mio linguaggio coincidono con i confini del mio mondo, afferma Wittgenstein nel “Tractatus logico-philosophicus” riecheggiando il celebre incipit de “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer. Impossibile affermare alcunché su ciò che sta “oltre” quei confini, ammesso che esista un “oltre”. Ma Wittgenstein non si ferma a una tradizionale confutazione della metafisica. Per il filosofo austriaco è impossibile persino descrivere quel confine, delinearne la cartografia. Ciò che non si può “dire” può essere soltanto “mostrato”. Forse, soltanto il linguaggio poetico ci permette di scorgere qualcosa di quella frontiera provvisoria, scabra, ed ostile che si colloca tra parola e silenzio. L’alterità che parla dagli abissi della parola poetica è l’ulteriorità di un confine, e in questo senso il fare poetico è un’esperienza contemplativa e mistica nel senso più forte del termine.
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