Sta sul cornicione il mimo scalzo,
s’arrampica alla luna
lungo alzane di fiandra,
cerca a tentoni la porta della notte,
il pàthos di ludiche rapsodie.
Piovono sassi sopra il cuore
dissecca la rosa tra le labbra,
l’occhiale sbilenco
rifrange il pergolato.
La sfera piramidale
si finge in corde d’arpa, si moltiplica l’edera dans la mémoire,
il bacio breve
del Coup de Théâtre.
Sorseggi l’ultimo verbo
dell’Elegia kafkiana,
il morfema singolare
si discosta
dalla scomposizione postuma
della Querelle des Anciens
et des Modernes,
e nella feritoia estetica s’impaglia
lo screzio dell’alveare.
Che sia silenzio o sospensione
la proporzione fra due tempi,
dell’erba falciata nell’inéclos
della pescaia,
di pendole appoggiate alle pareti,
mal s’accorda il disadorno vischio.
Ti fanno strie sul capo
le righe di pencole persiane,
le nervature di avite case,
il florilegio sui nenuferi
bluastri della scacchiera,
sullo strapiombo.
Thea Matera