Ogni atto linguistico presuppone un atto di fede.
Crediamo che le parole corrispondano alle cose, che colui che parla sia padrone di ciò che dice e pensa, crediamo che il linguaggio sia uno strumento pronto per essere manipolato a piacere. Crediamo di avere a che fare con qualcuno che comunica con noi soltanto per il fatto che ci parla in un lessico riconoscibile. La fede nel linguaggio è la nostra seconda natura, e corrisponde a un sistema di credenze scaturito da un irriducibile bisogno di certezza. All'incrocio tra il dato antropologico e il prodotto storico della nostra, cosiddetta, cultura di "occidentali".
L'uso quotidiano del linguaggio è fondato su un delirio grammaticale universalmente condiviso.
Ne abbiamo fatto un idolo e lo abbiamo chiamato "normalità", relegando nella sfera della "patologia" tutto ciò che non è compatibile con questa fede quotidiana.