Oggi su Marte mi sfiora
la tempesta,
non c’è che un filo d’erba
a scompigliare nuvole conchiuse
in granati barattoli di vetro,
i colori sono pozze di ematite
solchi nel concavo riflesso
di rosa acquamarina…
Cieli di polvere sovrastano
dissepolte lampide,
si schiudono ossidate ali
di rupicole,
come viluppo di quarzosi cràspedi
l’eco di luce si raccoglie
sui soffitti.
Cos’era la musica
se non un tonfo sordo,
il tinnulo arpeggio di asteri
sul giglio di mare…
La vita esplode nel grembo della luna sull’orma intatta di puntellate valli,
allo Zénith s’impolvera lo storno,
la filza di lumache discioglie
il brivio di aceraie,
l’anello della maglia
incartoccia sulle teste
i ninnoli di pietra
prima che affoghi in dogli
di titanio la rena di cellulosa.
Mi parlarono di docili chelonie,
ocracei ciottoli e spati
di viandanti,
di gerbere nel raggio
di lanugiosi palmi,
la diaspora di macine
e di armenti.
Era il cinabro pelago
un nicchio di calille
nel cielo che s’infosca
sul piumaccio,
dove sopravvive la cocciniglia,
e la lantana, sotto teche d’eliodoro;
distinguo dalla specola
il perno della ruota,
l’ultimo nome inciso nella secca, si vetrifica il lago di scarlatti brani dove hai colto invaiati pummeli,
l’avito gesmino e la catalpa, l’assecchita pieve e l’amaranto.
Ricadono i pensieri
come forme di alveari,
in silico si foggia l’agapanto
il dismentato stazzo,
smatassati tomboli
di romite nebule
si sperdono in liquate florescenze,
nella rifusa lacrima del Firmamento.
Thea Matera